Lui si chiama Federico Furlan, detto Fede, ma per tutti a Pratonovo è soltanto «il ciccione». In famiglia, a scuola, e poi da adulto, sul lavoro, Fede non può mai dimenticare il peso che si porta addosso, la tenera e inseparabile corazza di carne che lui foraggia costantemente a suon di cibo. Eppure, anche se infelice, Fede si sente invincibile. Il suo medico gli ha illustrato «il paradosso della sopravvivenza», bizzarra teoria clinica secondo cui le persone obese avrebbero un tasso di mortalità inferiore rispetto a quelle normopeso, come se il grasso facesse da scudo alle minacce del mondo.

Le cose cambiano quando Fede conosce Giulia, consapevole di essere bellissima e forse ignara di trovarsi pericolosamente vicina all’anoressia. È lei a proporgli un gioco dalle regole spietate. Provate a immaginarli nudi, l’uno di fronte all’altra, lei quasi invisibile e lui che riempie tutto lo spazio: durante i loro incontri Fede ha il divieto assoluto di toccarla, e l’obbligo di mangiare senza sosta tonnellate di cibo. Giulia lo domina, fredda e dispotica, e per difendersi non c’è corazza che tenga. Così, pieno di vergogna, Fede prende l’unica strada che gli resta: quella della fuga.

Giorgio Falco ha scritto un romanzo che contiene moltitudini: la desolazione di un paesaggio alpino non troppo dissimile dalle periferie industriali, la reificazione delle emozioni e dei pensieri, il controllo che la pornografia esercita sulle nostre pulsioni, la lotta quotidiana per la sopravvivenza che regala improvvisi lampi di comicità. Grazie a un protagonista che arriva a fagocitare se stesso, Falco ragiona su tutti i corpi – sessualizzati, perfetti, respinti, inadeguati, storpi, desiderati, mortificati, accolti – con cui ogni giorno ciascuno di noi entra in rotta di collisione.

«Il mondo è il mio peggior nemico. Io sono il mio nemico».

Edizioni Einaudi

Maggio 25, 2023

di Nicola H. Consentino

Se mai nel mondo dei lettori, sarà indetto un referendum sull’uso della domanda «Di che parla questo romanzo?», Il paradosso della sopravvivenza di Giorgio Falco (Einaudi, 2023) dovrebbe comparire tra le prove a sostegno dell’abrogazione. Perché è uno di quei libri impossibili da sintetizzare senza sradicarli, e quindi senza causare smottamenti nel terreno su cui sarebbero dovuti fiorire. Un’insidia tuttavia c’è, e si palesa fra il tredicesimo e il diciottesimo capitolo, quando Falco racconta i vent’anni del protagonista: qui, il romanzo raggiunge una vetta – non necessariamente in termini di qualità letteraria, forse solo di presa – che distoglie l’attenzione da ciò che c’è stato prima e da quello che verrà dopo, istigando a questa sintesi: «Il paradosso della sopravvivenza parla di due ragazzi – lui obeso, lei quasi anoressica – che stringono uno strano patto sessuale». 

Ecco, non è vero. Non del tutto, almeno. Tanto per cominciare, il protagonista è uno: Federico Furlan detto Fede, l’unico ragazzo sovrappeso di Pratonovo, paese immaginario del Trentino. Falco gli dà dei connotati dopo ottanta pagine, come premio di maturità: «Adesso che Fede è maggiorenne» scrive «si merita una descrizione, sebbene sia considerato soltanto un ciccione, un anomalo ciccione alpino, un ciccione che ha qualcosa del ciccione newyorkese, del ciccione siberiano, del ciccione andaluso, del ciccione tibetano, qualcosa che rende un ciccione simile a un qualsiasi altro ciccione, invisibile a dispetto della mole». Prima di questo momento, cioè prima dell’assegnazione di un’individualità, i temi-motore del romanzo sono le ragioni che portano un bambino come gli altri a desiderare soprattutto, se non soltanto, il cibo. Quando è iniziata, questa fame che non dà tregua? Con la decisione della mamma di ricorrere, a un certo punto, forse troppo presto, al latte in polvere? O prima ancora che Fede nascesse, col vuoto lasciato in famiglia dalla morte del nonno, da tutte le morti del mondo? Forse un vero responsabile non c’è: anche il corpo, col suo apparato meno visibile e più determinante, quello delle voglie e delle esigenze, segue le regole del caso.  Sembrerebbe di sì, visto che il suo scopo, l’unico, è andare avanti, spegnersi il più tardi possibile; sopravvivere. E la sopravvivenza, in senso assoluto, è il vero filo conduttore della storia di Fede, spesso intervallata da episodi di schianti: c’è il racconto autobiografico dell’unico superstite alla caduta di una cabina della funivia – «Era stato assurdo non morire: un paradosso, sopravvivere» – e un bellissimo capitolo in cui si danno la staffetta gli incidenti di Luca, Mario e Granit, scampati, per ragioni diverse, da morte certa. L’ultimo sopravvissuto, o meglio, il sopravvivente, è proprio Fede. La sua è quasi una vocazione: da ragazzino, il dottor Cles gli ha riferito che, «secondo alcuni medici americani, un obeso non ha più possibilità di morire rispetto a un uomo magro. Anzi, gli obesi, con scompensi cardiaci o dopo un evento cardiovascolare, hanno un tasso di mortalità inferiore rispetto ai pazienti magri. Il paradosso della sopravvivenza. Secondo questa teoria, ciò che ci uccide ci protegge». Forse per questo, finito il liceo, Fede si lega a Giulia. Ricca, popolare, molto magra – «una mezza anoressica, come quasi tutte le donne», dice di sé –, lo invita nella sua dépendance e lo costringe a una specie di gioco di dominazione: entrambi nudi, a debita distanza, lui guarderà lei e lei guarderà lui, costretto (cioè finalmente autorizzato) a mangiare fino alla nausea. Fede, insomma, eccederà per entrambi. Il gioco prosegue per anni, e un po’ li avvicina – Giulia reprime il pene di Fede in una gabbietta di cui solo lei ha la chiave – e un po’ li allontana. Dopo una “sessione” particolarmente intensa, il ragazzo lascerà Pratonovo per Milano, cambiando vita all’improvviso. 

Qui il tema cambia ancora, si avvicina alle zone concettuali in cui è più facile incontrare Giorgio Falco. Fede diventa una specie di maschera del lavoratore disumanizzato, e perde i connotati conquistati a diciotto anni. Anche i colleghi di Milano lo chiamano «Fede il ciccione», ma prima e più di questo è Fede-il-dipendente-come-mille-altri, sballottato fra mestieri alienanti e sminuenti – «la precisione non interessa a nessuno», gli dicono – e in cui il ricambio di personale è vorticoso – «Tre mesi è un’anzianità?», «Qui sì». Tra questi, l’impiego in una società di servizi informatici che applica i tag ai siti porno e sceglie gli aggettivi per le previsioni del tempo. Per il porno bisogna essere spietati, efficaci ed estremamente comunicativi, cioè catalogare le persone come Fede è stato catalogato a Pratonovo, in base ai loro corpi e a ciò che coi corpi si fa. Per le previsioni, invece, meglio non scontentare nessuno: «La pioggia leggera diventa debole, moderata diventa leggera, forte diventa moderata». Solo a proposito dell’aspetto fisico, dunque, non si può fingere.

Per chi ha già apprezzato Giorgio Falco, Il paradosso della sopravvivenza si leggerà come un duello interiore tra le sue anime: quella che racconta vite e destini (La gemella H, 2014) costellandole di felici invenzioni letterarie e quella che si interroga su quanto, queste vite e questi destini, siano condizionati dal lavoro (Ipotesi di una sconfitta, 2017 e Flashover, 2020). Anche il linguaggio, qui, segue binari diversi. 

I dialoghi di Fede con Giulia sono aforistici, surreali; «scolpiti», dicono loro. Quelli coi colleghi di Milano, o coi genitori, sono invece più semplici, scattanti; in linea con ciò che chiede il sistema: concretezza, realismo, rapidità. Questa alternanza è la quota artistica e politica del romanzo, nel senso che l’equilibrio fra verosimile e surreale, o fra poesia ed economia, agisce come un cambio di valuta o di fondale, sul solco (ci riescono in pochissimi, quasi nessuno) di Don DeLillo; e dice: noi occupiamo lo spazio in base a come parliamo. Fede, prima che il suo corpo, prima che il suo lavoro, è le parole che usa e ascolta. Ha vissuto nella letteratura – che è la dimensione espressiva del voler vivere e non del sopravvivere – unicamente con Giulia, all’interno di una bolla lirica, di confini abbattuti. Da questa bolla, lei si è sottratta una sola volta, urlandogli contro: «Come osi starnutirmi nella figa?». Una frase, un’immagine, un’idea che non esiste in nessun altro romanzo del genere. E questa, si converrà, è arte contemporanea. 

(Snaporaz, 27 marzo 2023)

di Luca Illetterati

Scrittori italiani. Alternando avvicinamenti e campi lunghi, Giorgio Falco segue la condizione liminare, dalla nascita fino all’età matura, di un uomo «strutturalmente inadeguato»: «Il paradosso della sopravvivenza», da Einaudi

Il concetto di sopravvivenza ha trovato, nel corso della storia delle idee, diverse declinazioni: nel saggio sul compito del traduttore, ad esempio, Walter Benjamin ne fa l’elemento specifico cui  è affidata la sopravvivenza delle opere, ciò che permette il loro procedere nella vita al di là di ogni singola esistenza. Nella teoria evolutiva di Darwin, invece, la sopravvivenza è connessa all’adattamento, ovvero alla conservazione dei tratti vantaggiosi e alla distruzione di quelli nocivi nella selezione del più adatto.

Non riducibile, pur senza esservi estraneo, alla dimensione dell’ulteriorità, né a quello dell’adattamento, Il paradosso della sopravvivenzache dà il titolo all’ultimo romanzo di Giorgio Falco (Einaudi, pp.256, € 20,00) disegna una sorta di fenomenologia che coincide, per molti versi, con  la storia di un personaggio – Fede, ovvero Federico Furlan – in cui vive l’emblema del non adatto. Attraverso una tecnica narrativa straordinariamente raffinata, che alterna avvicinamenti e campi lunghi a scandire tanto la cronologia esistenziale dei personaggi quanto le diverse forme di temporalità, viene disegnata la parabola di Fede, dalla nascita fino alla maturità, che non ha connotazioni specifiche se non quella di essere un «ciccione». Fede è talmente grasso che non sa nemmeno quanto pesi: la bilancia del medico di Pratonovo, paese di montagna della Val Fiori dove l’uomo vive, ha una portata massima di 150 chilogrammi e ogni volta che lui vi si pesa arriva alla stanghetta e lì si ferma senza che si sappia di quanto ecceda. Non perciò, tuttavia, Fede resta estraneo alla vita che lo circonda; piuttosto la affronta da una condizione liminare, dove il dentro e il fuori si confondono, determinando il genere peculiare di sopravvivenza che Fede letteralmente incarna. Strutturalmente inadatto alla vita, l’uomo e lo è a maggior ragione  in un’epoca dove la fitness è diventata un imperativo morale, un ethos sociale che innerva tutte le politiche dell’esistenza. E tuttavia Fede sopravvive, non malgrado ma proprio in virtù, pare, del suo essere inadatto. Il suo paradosso viene così enunciato dal medico curante: «secondo questa teoria, ciò che ci uccide ci protegge, almeno in una prima fase, per eternizzare non certo la vita, quanto la sopravvivenza, come se sopravvivenza e vita fossero scisse».

La specifica declinazione della sopravvivenza di cui tratta il romanzo di Falco non allude tanto a una vita ulteriore, né a una lotta vincente contro la possibilità di perire, quanto a un modo di vivere la vita come se essa fosse un’entità estranea al suo soggetto.

Il  cibo di cui Fede si ingozza  rappresenta,  per lui, la vita e ne è il surrogato. Lo ha capito la ragazza ricca, magra, quasi anoressica, da cui Fede è attratto, alla quale si sottomette e dalla quale fuggirà, nel tentativo di cambiare, di non contentarsi della sopravvivenza. Nei pensieri della ragazza, il cui nome è Giulia, proprio il fatto che ingozzandosi Fede rifiuti la vita determina la possibilità, per lei, di disporne liberamente. Ma in realtà, l’atteggiamento di Fede più che un rifiuto è – ciò che dà una ulteriore connotazione al senso della sua sopravvivenza– una sorta di sosta nell’interregno tra la vita e la morte.

La sua condizione è  condivisa con altri sopravvissuti che si incontrano nel romanzo: per esempio, l’unico superstite al terribile incidente alla funivia di Pratonovo. Frutto di un caso, la sopravvivenza di questo uomo, che tuttavia non è nemmeno più propriamente vivo, gli porterà in dote una sorta di colpa e insieme l’annientamento di qualsiasi possibilità di senso. C’è poi il caso di Sergio Verner, il macchinista della funivia, che aveva agito come gli avevano detto, e pur essendo solo l’ultimo dente di un ingranaggio regolato altrove, è l’unico a pagare. Una volta uscito dal carcere Verner sopravvive grazie agli aiuti della parrocchia dove va a fare le pulizie in attesa che il giorno finisca e ne inizi un altro.

Per il tramite di questa fenomenologia della sopravvivenza disegnata da Falco nel suo romanzo, ciò che resta della vita si presta a sostituirne la piena realizzazione, in un tempo in cui il rapporto con il reale prende forme parossistiche: Fede si ritrova, per esempio, a dover taggare le categorie dei video porno senza mai scendere sotto la soglia dei cinquanta filmati all’ora, il che comporta la sistematica prevalenza del contenitore sul contenuto, e la normalizzazione di ogni ribellione. È un tempo, questo, in cui conta solo sopravvivere.

E proprio il fatto che Fede sia «fuori del tempo» consente a noi lettori che lo seguiamo di mettere a fuoco quella dimensione temporale nella quale siamo immersi e che perciò è così difficile per noi distinguere.

(Alias il manifesto, 26 marzo 2023)

di Vittorio Lingiardi

Mentre l’editore Puffin decide di eliminare la parola “grasso” dai romanzi di Roald Dahl e al cinema è in programmazione The Whale di Aronofsky, straordinaria pièce sugli amori perduti di un uomo obeso, leggo un bellissimo romanzo dove la parola “ciccione” appare più di cento volte. S’intitola Il paradosso della sopravvivenza e lo ha scritto Giorgio Falco. È la storia di Federico Furlan, detto Fede. Per tutti, nel paese di Pratonovo, è “il ciccione”. Davanti a sé stesso è “il ciccione”. Non c’è una prima volta per quel nome, che sia stato sussurrato come una dichiarazione d’amore, “oppure urlato e ripetuto in coro, scandendo le sillabe. Cic-cio-ne, cic-cio-ne, cic-cio-ne”. A scuola, Fede gioca nella squadra di hockey su ghiaccio. L’allenatore lo schiera in porta, non perché è bravo, ma perché è obeso. “Fede para grazie al semplice esistere. Parare, salvare il risultaro, rendersi utile, diventa una colpa che ricorda a tutti la sua condizione di obeso”. Il corpo si fa carettere, difesa, alibi e al tempo stesso forza. L’immensità è corazza, nascondiglio, fragilità, potenza. “Invisibile a dispetto della mole”, Fede non capisce se ha un corpo oppure è un corpo. Il suo peso, 149,9 kg, “sembra un prezzo”. Il dottor Cles lo segue fin da quando era bambino, lo ha visto “crescere e ingrassare”, gli ha sorriso mentre la madre lo sollevava come fosse la Coppa dei Campioni, trofeo della madre bambina. Lo ha chiamato “paffutello, paffuto, rotondetto, pienotto, robustello, robusto, cicciottello, cicciotto, grassottello”. Fino alle ultime “definizioni abituali di grasso e obeso”. Il romanzo si intitola Il paradosso della sopravvivenza perché il dottor Cles, riesumando una singolare teoria medica americana, spiega a Fede che un obeso, nonostante la quantità di patologie organiche correlate all’obesità “non ha più possibilità di morire rispetto a un uomo magro”. Una teoria per cui “ciò che ci uccide ci protegge, almeno in una prima fase”: un patto che il corpo fa con la sopravvivenza, non con la vita, come se le due dimensioni fossero separate. Carla è la madre. Quando lo allatta, il padre rimane a letto, girato dall’altra parte. “Fede morde quando mangia”, dice Carla a colazione. Come ogni corpo, grande o piccolo, quello di Fede si perde nella storia familiare, che è biologia nelle relazioni. E linguaggio. Falco conosce la lingua della psiche e dei legami, sa come scriverla. La sua scrittura è una chirurgia pietoso, un bisturi cone mille occhi a cui nulla sfugge. Ha nove mesi, Fede, quando, ancora immerso nel mistero cognitivo e affettivo della lallazione, “bofonchia ma-ma, pa-pa-, bi-be-to”. Bibeto è il biberon. Bibeto misura ogni cosa: il pieno e il vuoto, l’inizio e la fine, il caldo e il freddo, la necessità e la mancanza. Fede perde l’innocenza quando continua a dire bibeto sapendo che il nome condiviso è biberon. “Accetta il gioco linguistico, ma entra nella lingua degli adulti, si osserva vivere e, colmo di sgomento, inizia a dimentica se stesso”. Leggere questo romanzo è entrare in ogni parola, fino al nucleo mentale che la produce. La scrittura di Falco possiede il corpo psichico della lingua, le fantasie inconsce, l’oscillazione tra le posizioni schizo-paranoiche e depressiva. C’è un’anima kleiniana nel controluce di queste pagine, la mente raccontata come contenitore di oggetti parziali o totali. Questo discorso mi porterebbe lontano, coltivando un mio interesse e non quello del lettore né dell’autore. Lasciatemi però dire che ogni professionista che si occupa di disturbi alimentari dovrebbe leggere almeno il capitolo sette. 

Un giorno il corpo di Fede incontra lo sguardo di Giulia. Lei si definisce “mezza anoressica”, ed è convinta che il suo corpo di donna magra sia un prigione quanto quello grasso di Fede. “Quante privazioni per vedersi attraente e sentirsi desiderata da un ipotetico, immenso sguardo altrui”, dice. Giulia è al comando, Fede è al servizio. Costruiscono una relazione di ubbidienza e godimento, tenerezza e potere. Una relazione sadomasochistica. In questa torsione della trama capiamo una volta di più quanto la sessualità sua sempre una compenetrazione di corpi e bisogni (controllo, adorazione, resa, rapimento, per citare alcuni esempi) che rivela i lati nascosti del nostro attaccamento originario a chi ci ha accudito.

In un’epoca in cui i corpi reali stanno scomparendo nella virtualità, leggere Il paradosso della sopravvivenza  non è solo un’esperienza letteraria rapinosa, è anche un riflessione sullo spazio occupato o liberato dai corpo, tutti i corpi: erotizzati, respinti, storipiati, mansueti, osceni, rabbiosi, devoti, performativi. 

“Il mondo è il mio peggior nemico” dice Fede. “Io sono il mio nemico”.

Il suo corpo, per ricordare il canto whitmaniano di me stesso, contiene moltitudini esorbitanti di intelligenza e dolore. Lo stesso vale per la scrittura acuminata e pietosa di Giorgio Falco.

(Robinson Repubblica, 20 marzo 2023)

di Fabrizio Ottaviani

Ha due facce, il medico di famiglia che visita Fede, bambino obeso cresciuto negli anni Ottanta in un villaggio alpino all’ombra del Dardo, una cima dal profilo apertamente minaccioso. La prima faccia minimizza, il bambino non deve preoccuparsi, è solo «robusto»; non servono cure dimagranti e questo anche se solo un piccolo cilindro metallico impedisce alla lancetta della bilancia di oltrepassare il quintale e mezzo. La seconda, che dà il titolo al romanzo di Giorgio Falco (Il paradosso della sopravvivenza, Einaudi, pagg. 256, euro 20), enuncia la teoria secondo la quale gli obesi sarebbero in grado di difendersi meglio da alcune gravi malattie, per esempio il diabete o le cardiopatie. L’allegoria è trasparente: anche il patologico ha i suoi punti di forza, i suoi titoli di vanto. Il male genera i propri anticorpi.

Dopo un’infanzia caratterizzata dall’esclusione sociale e un’adolescenza in cui si limita a suscitare il disprezzo dei coetanei, Fede interrompe il digiuno sessuale che colpisce gli obesi quando, ormai studente universitario, è sedotto da Giulia, la figlia dell’imprenditore più ricco del paese. In un romanzo da bancarella, l’obesità di Fede preluderebbe all’emancipazione del protagonista, impegnato a dimagrire. Falco trasforma invece Giulia in un’eroina che applica al membro di Fede una gabbietta d’acciaio con tanto di lucchetto, dispositivo forgiato da moderni nibelunghi in una Ruhr immaginaria. È l’innesco di un gioco sadomasochistico dominato da dialoghi di impressionante consequenzialità e più stringenti della gabbietta di cui sono, in fondo, la metafora.

Il resto del romanzo – nel quale spiccano le pagine dedicate alla catastrofe che travolge la funivia del paese e le vicende legate al trasferimento del protagonista a Milano, dove è subito risucchiato nei mestieri legati al mondo di internet – non deroga dal diktat implicito dell’autore, un pessimismo non solo cosmico, ma articolato: mostruoso il passato geologico del pianeta, una sequenza di catastrofi; agghiacciante la condizione umana, fatta di nascite e morti che si susseguono senza senso, situazione rivelata già dal primo vagito di Fede, «un urlo acuto, privo di passato e segnali premonitori, presente e impersonale, la cosa più prossima al silenzio»; intollerabile, infine, la condizione attuale della gente, sorta sulle rovine di un mondo tradizionale che almeno metteva a disposizione alcuni «quietivi», per dirla con Schopenhauer, tranquillanti culturali con cui era possibile ingannarsi in modo relativamente umano; ammesso e non concesso che per Giorgio Falco l’aggettivo abbia un significato non puramente derisorio.

DOMINANZA DI COSE di Sabrina Ragucci e Giorgio Falco

[Scrive Maria Rizzarelli che un modo di fare i conti con la figura o meglio con la ‘raffigurazione’ di #Pasolini, in occasione del centenario della nascita, sta nella ricerca di una via alternativa all’agiografia, come alla banalizzante parafrasi delle sue analisi e delle sue affermazioni.

È proprio una delle idee su cui si basa il percorso espositivo intitolato “Pasolini: ipotesi di raffigurazione”, allestito a La Nuvola, a Roma, per Europhoto Project da Marco Delogu insieme ad Andrea Cortellessa e Silvia De Laude, restituendo alcuni snodi della ‘topografia sentimentale’ dell’autore, attraverso le rifrazioni degli sguardi e gli attraversamenti dei luoghi compiuti da alcuni artisti contemporanei. Fra questi, Maria Rizzarelli ha intervistato Giorgio Falco e Sabrina Ragucci. Il contributo è disponibile online sul sito:

http://www.arabeschi.it/dominanza-di-cose-pasolini…/…

#Arabeschi20#ArabeschiInterviste#Pasolini100#mariarizzarelli#giorgiofalco#sabrinaragucci

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Eppure, anche se infelice, Fede si sente invincibile. Il suo medico gli ha illustrato «il paradosso della sopravvivenza», bizzarra teoria clinica secondo cui le persone obese avrebbero un tasso di mortalità inferiore rispetto a quelle normopeso, come se il grasso facesse da scudo alle minacce del mondo.