Daniele Giglioli su “la Lettura” scrive di Flashover, di Giorgio Falco con Sabrina Ragucci.
novembre 1, 2020
“Flashover fa collassare, con una mossa abituale a Falco, il passato mancato su un presente vuoto”
Purificatore? Ma dai… È il fuoco del capitale.
di Daniele Giglioli a Flashover – la Lettura – Corriere della Sera – 01/11/2020
la Lettura – Corriere della SeraNon un personaggio ma una Sostanza è protagonista di Flashover. Incendio a Venezia, nuova inclassificabile opera di Giorgio Falco: il Fuoco. Sostanza promordiale per gli antichi greci, operatore del sacrificio e della cremazione per gli indiani, dai Veda ai giorni nostri. Ma pure metafora ossessiva che si diffonde nel testo, dal riscaldamento globale ai roghi dei boschi, da espressioni come accendere o estinguere un mutuo, miliardi bruciati e risparmi in fumo, a sigarette e inceneritori tossici che avvelano i polmoni. Tutto brucia, tutto inclina al flashover, che nel gergo dei pompieri indica lo stadio dell’incendio successivo all’innesco e alla propagazione, quando la temperatura è uniforme, ogni superficie è intaccata e l’esito ultimo non potrà essere che cenere e macerie. Tragico e ironico al tempo stesso che su questo sfondo gradioso si stagli l’aneddoto infimo da cui prende avvio la rêverie di Falco, il rogo del teatro della Fenice di Venezia, 29 gennaio 1996, appiccato dall’elettricista Enrico Carella, con la complicità del cugino Massimiliano Marchetti, per non pagare la penale del ritardo nella consegna dei lavori: pochi milioni di lire rispetto a quelli per cui è già esposto (erano anni in cui si concedevano prestiti e mutui folli a tutti), non per difficoltà imprenditoriali ma perché fa la “bella vita”, compra a rate una costosissima Bmw, va al lavoro in mocassini ed ha sempre un bisogno di droga (il rovescio speculare del probo e un po’ “mulo” piccolo padronicino del nordest, ma risparmiamoci la sociologia), ciò che lo porta a scroccare cifre considerevoli alle fidanzate quando la garanzia del padre, pesce più grosso di cui è subappaltatore, non riesce ormai a proteggerlo. Un episodio in cui la sproposrzione tra l’attore e l’azione è così enorme (120 miliardi di danni, il rischio che Venezia intera bruci) da far spadroneggiare senza inadeguati rivali umani il mezzo attraverso cui la truffa viene praticata, il Fuoco, agente primordiale e terminale attorno a cui si è rinuita e forse si dissolverà la specie umana.Da Empedocle a Carella, il principio primo dell’essere è diventato decalcomania del capitale sfuggito al controllo dell’umanità che lo ha generato secondo ratio a partire dal Lavoro, tema caro a Falco fin dagli esordi. Lavoro che è fuoco divoratore esso stesso secondo Hegel e Marx, che dall’alleanza di fuoco e acqua (la macchina a vapore) guidata dal proletariato, si aspettava niente meno che un’umanità capace di riappropriarsi della sua essenza estraniata. Non è andata così, l’acqua scarseggia anche se i mari salgono, Venezia verrà sommersa ma sarà un eccesso di secco e non di umido a estinguerci. La terra tutta bruciata, ritraduzione letterale del greco olocausto, “tutto bruciato”, sacrificio consumato. Fuoco, del resto, e non più acqua (il diluvio, il battesimo…) ci prometteva l’Apocalisse di Giovanni, fiato incendiario che nell’ultimo giorno prorompe dalla bocca di Gesù tornato in terra per annientare l’Anticristo: redentore, ma anche pena eterna dei dannati. Falco è artista colto e sottile, per di più quasi sempre qui in stato di grazia. Sa bene che, compiuto con altri intenti, il gesto dei due mona sarebbe di tutt’altra serietà, atto terroristico o performance artistica clamorosa. Non aveva già Marinetti giovane incitato a bruciare le gondole, e un Karlheinz Stockhausen senile dichiarato che l’attentato dell’11 settembre era la più grande opera d’arte contemporanea? E Il fuoco di D’Annunzio, ambientato a Venezia? E l’incendiario di Palazzeschi? La fiamma è bella, la fiamma piace. Quello della Fenice è invece un fuoco freddo, e freddamente scrutato dall’autore attraverso una spiazzante mescolanza di dettagliate perizie chimiche e metafore che esplodono come lapilli in ogni direzione. È il fuoco elettronuco da cui passano i bit delle dark pool, stanzoni dove stuoli di computer, guidati da un algoritmo, compiono migliaia di operazioni al minuto, nuvola gigantesca di denaro immateriale e acefalo che aduggia il mondo e da cui il capitale trae i suoi profitti dopo aver bruciato intero il potere del Lavoro. Il preumano diventa post-umano. La scintilla prometeica che apre prossibilità di praxis, magari perverse come il fulmine di Frankenstein, il flashover che le le estingue per sempre. Non a caso il romanzo è costellato da una serie di fotografie di Sabrina Ragucci in cui l’autore compare coperto da una maschera, così come l’autore dell’incendio, più che un personaggio, è una maschera del capitale, il suo ultimo prodotto, la sua suprema performance, il consumatore soddisfatto, chimera bugiarda del neoliberismo, non il produttore e la sua ideologia, “l’imprenditore che si assume in proprio i rischi”. Opera scomposta, aggregata più attorno a un’immagine che a una vicenda miserrima, Flashover fa collassare, con una mossa abbituale a Falco, il passato mancato su un presente vuoto. Triste ma vero. Salvo nuovi, imprevedibili sviluppi, andrà così. Osso duo da rodere, ma di cui il fuoco non macherà di occuparsi fino a quando non ci sarà più nessuno a rimpiangere la bellezza, inutile ormai come quella della Fenice, di ciò che avrebbe potuto essere e non è.
